giovedì 23 luglio 2009

Arte in Vaticano: le chiavi del Regno. Il potere di chi sa inginocchiarsi (Timothy Verdon)


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Arte in Vaticano: le chiavi del Regno

Il potere di chi sa inginocchiarsi

di Timothy Verdon

Il Vaticano non è di facile lettura. Luogo di paradossi, questo leggero rialzo nel terreno sulla riva destra del Tevere ospita i resti di un pescatore quasi analfabeta, ma ha per baluardo e ingresso il mausoleo del più colto dei Cesari, Adriano, che regnò sull'Impero romano dal 117 al 136 dopo Cristo. A ovest del mausoleo, l'immensa piazza, che oggi accoglie pellegrini e turisti, ricopre in parte un circo costruito da altri imperatori, Caligola e Nerone, a partire dal 37 dopo Cristo. E al centro della piazza - in cima all'obelisco trasportato dall'Egitto ed eretto dai romani in segno della loro conquista dell'impero dei faraoni - vi è un'urna con frammenti della croce di quel Cristo, giustiziato intorno all'anno 30, per seguire il quale il pescatore fu crocifisso nel circo 34 anni dopo.
Le parole-chiave sono "dopo" e "Cristo". Il Vaticano si pone come segno di un mondo "dopo Cristo" in cui il paradosso diventa norma di un mondo capovolto.
L'umile pescatore che ora trionfa là dove morì da criminale è egli stesso figura di capovolgimento; Simone, chiamato Cefa o Pietro, il più importante dei primi seguaci di Gesù, condannato a morire come il suo Maestro, in croce, chiese di essere posizionato con la testa all'ingiù, capovolto. Non si ritenne degno di uscire da questo mondo a testa alta, perché in un momento di terribile debolezza aveva negato di conoscere Cristo. Nonostante questo tradimento, però, Cristo l'aveva perdonato, confermando e allargando il potere già datogli, e anche questo fu una sorta di "capovolgimento".
Sono questi, infatti, i principali messaggi comunicati dal luogo: "perdono" e "potere". Il Vaticano esprime il perdono mediante segni di potere, come Gesù rimetteva i peccati e poi dimostrava di averne il diritto mediante miracoli. Al Vaticano il perdono "è" potere, secondo le parole di Gesù al pescatore Pietro: "A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli" (Matteo, 16, 19). Nel linguaggio arcaico usato da Gesù, avere le "chiavi del regno" significa avere il potere su di esso, e "legare" e "sciogliere" riguardano l'attribuzione di responsabilità morale per le azioni: queste frasi significano praticamente "condannare" e "assolvere".
Proprio quest'episodio del Vangelo, la consegna delle chiavi del regno a san Pietro, viene illustrato in alcuni dei punti più visibili del complesso vaticano: nel rilievo di Ambrogio Buonvicino sopra la porta mediana della facciata della basilica, per esempio, e nell'affresco di Pietro Perugino al centro della zona riservata al pubblico nella cappella Sistina. Sin dal medioevo, poi, anche l'impresa araldica dei Papi allude a questo evento, facendo vedere - insieme allo stemma di famiglia o personale del pontefice - due chiavi, in segno della trasmissione di ciò che viene formalmente denominato il "potere delle chiavi". E le parole di Cristo a Pietro, "A te darò le chiavi del regno" - e quel che segue - sono scritte in nero su oro in lettere cubitali sul cornicione della navata della Basilica: non solo leggibili, ma addirittura ineludibili.
Tutto ciò ha un evidente scopo istituzionale, quello di legittimare l'autorità rivendicata dai Papi, riportando il potere delle chiavi alla sua origine divina nella consegna fatta da Cristo a Pietro. Ma ha anche una componente umana e altamente drammatica, dal momento che quella consegna avvenne nel quadro di uno scambio personale tra Gesù e il ruvido pescatore: uno scambio in cui l'identità profonda dell'uno e dell'altro venne rivelata. Nel vangelo di Matteo, le parole "A te darò le chiavi del regno" completano, quasi in maniera consequenziale, un altro episodio, introdotto dalla domanda che Gesù fece ai suoi discepoli più stretti: "La gente chi dice che sia il Figlio dell'uomo?" (Matteo, 16, 13). I discepoli rispondono: "Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti", e Gesù arriva allora al punto vero, chiedendo: "Voi chi dite che io sia?" (Matteo, 16, 14-15). Gli risponde Pietro che afferma: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente", cioè il salvatore atteso dal popolo ebraico; e Cristo, precisando che tale certezza era frutto di una rivelazione divina, non delle sole doti deduttive del pescatore, dà un nome nuovo al discepolo, che poi spiega con un gioco di parole estremamente significativo: "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa" (Matteo, 16, 16-18). Seguono finalmente le parole: "A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli" (Matteo, 16, 19).
Vale a dire che il potere delle chiavi scaturisce da un rapporto unico: una reciproca riconoscenza - "Tu sei il Cristo", "Tu sei Pietro" - in cui il ruolo di Pietro viene definito da Dio stesso (in Matteo, 16, 17, Cristo precisa che "né la carne né il sangue" hanno rivelato la sua identità a Pietro "ma il Padre mio che sta nei cieli"). Vuol dire che le chiavi date a Pietro hanno a che fare con l'identità profonda di Gesù come Messia ("Cristo") e salvatore, e simboleggiano perciò una salvezza che consiste precisamente nel perdono. Riguardano anche la nuova identità del pescatore, chiamato a essere la "pietra" su cui Cristo edificherà una comunità, la Chiesa, col compito di prolungare la sua missione di salvezza mediante il perdono, e contro la quale neanche l'inferno potrà prevalere. Il modo in cui, all'asserto che "le porte degli inferi non prevarranno" contro la Chiesa (Matteo, 16, 18) segue immediatamente la consegna delle chiavi (16, 19), suggerisce che l'impotenza del regno infernale è direttamente correlata al potere del perdono affidato a Pietro, e che la Chiesa edificata su questa "pietra" è stabile in virtù di tale potere morale e spirituale.
Può sembrare strano insistere sul "potere" in un sistema religioso come il cristianesimo, che, nei suoi scritti sacri, privilegia invece la mitezza e l'arrendevolezza, l'offrire l'altra guancia e l'andare al sacrificio senza opporre resistenza. Eppure, trattandosi del Vaticano l'argomento "potere" è inevitabile, anzi centrale, poiché tutto in Vaticano ne parla: le titaniche dimensioni degli edifici, lo sfarzo degli arredi, la ieratica solennità dei riti. Dal momento poi che proprio in Vaticano e al servizio dei Papi sono stati ravvivati i linguaggi dell'architettura e delle arti antiche - nella mole colossale della Basilica, nella forza sovrumana delle figure affrescate nella Sistina e nella "grazia divina" di quelle nelle Stanze - bisogna dire che la stessa idea del potere nella cultura europea, nonché la sua rappresentazione per immagini, nascono qui. Qui le più importanti opere dei più innovativi artisti dell'alba dell'era moderna - i capolavori di Bramante e Michelangelo, di Raffaello e Bernini - definiscono il senso della civiltà cristiana in termini di inequivocabile potere.
Ma è legittima, quest'esegesi vaticanense del Vangelo cristiano? Una lettura imparziale delle fonti sembra dire di sì, credo, perché il cristianesimo - come ogni grande sistema religioso - ha a che fare precisamente col potere; ma è il potere di Dio a tutela dell'uomo; il potere del perdono; il potere come strumento di servizio. A dire il vero, al cuore del mistero della sua stessa persona, il fondatore del cristianesimo, Gesù Cristo, sperimenta il potere divino, così che, quando una donna che soffriva da anni di emorragie gli tocca il mantello, ricevendo l'agognata guarigione, Gesù avverte "la potenza che era uscita da lui" (Marco, 5, 30), e quando il padre di un ragazzo epilettico gli chiede: "Se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi ed aiutaci!" (Marco, 9, 22), Gesù ripete la frase con stupore - "Se tu puoi!" - insistendo che "tutto è possibile per chi crede", prima di guarire il fanciullo.
I miracoli non sono, tuttavia, che segni di un potere ancora maggiore: quello sulla coscienza umana, quello del perdono. Quando gli amici di un paralitico scoprono il tetto della casa in cui Cristo sta insegnando - perché non riescono a farsi strada tra la folla - e calano il malato davanti al Maestro, Gesù, toccato dalla loro fede, dice all'uomo: "Figliuolo, ti sono rimessi i tuoi peccati" (Marco, 2, 5). Avvertendo nel contempo la tacita condanna da parte di alcuni teologi presenti e - perché capiscano "che il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati" - ordina al paralitico: "Alzati, prendi il tuo lettuccio, e va' a casa tua", chiaramente subordinando il segno fisico della guarigione al segno morale del perdono (Marco, 2, 10-12).
Il potere di Cristo è potere sul peccato e sulla malattia, potere sui venti e sull'acqua che gli obbediscono (Luca, 8, 25), potere sulla morte stessa. Non solo risuscita Lazzaro, e altri, ma afferma la sua libertà personale di dare e di riprendere la propria vita (Giovanni, 10, 17-18). È potere sul mondo, che egli afferma d'aver conquistato (Giovanni, 16, 33). E quando il rappresentante del "mondo", il governatore della Giudea, Ponzio Pilato, gli chiede: "Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?", Gesù risponde: "Tu non avresti nessun potere su di me se non ti fosse stato dato dall'alto" (Giovanni, 19, 11).
Ma il potere in Cristo si differenzia drammaticamente da quello del mondo, e quando la madre di due dei discepoli chiede per i figli posti di onore nel "regno" che egli sta inaugurando, Gesù distingue le due opposte concezioni: "I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo fra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell'uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti" (Matteo, 21, 25-28).
Gesù insegnò lo stile di questo potere ai suoi discepoli, insistendo che "se uno vuol essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servo di tutti" (Marco, 9, 35). Diede la penultima lezione la notte prima di morire, inginocchiandosi per lavare i piedi dei suoi discepoli e vincendo le perplessità di Pietro, che riteneva tale gesto umiliante per Cristo, il quale invece disse: "Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi" (Giovanni, 13, 13-15).

(©L'Osservatore Romano - 23 luglio 2009)

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