mercoledì 8 luglio 2009

Il Papa e le tavole della finanza etica. Quel discorso alle coscienze più che ai poteri (Rosati)


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Il Papa e le tavole della finanza etica

Domenico Rosati

Chi si aspettava dall’enciclica sociale di Benedetto XVI un atto di irruzione nella crisi economica in atto, o un marchio sulle patologie del liberismo, non può che essere deluso dalla lettura del testo della «Caritas in veritate».
Invano si cercherebbe in essa una di quelle espressioni brucianti che hanno segnato il magistero dei predecessori: come, ad esempio, la denuncia della «condizione poco meno che servile» degli operai (Leone XIII), la contestazione dell’«imperialismo del denaro» (Pio XI), la deprecazione della guerra nucleare come «alienum a ratione» (Giovanni XXIII), l’incombere della «collera dei poveri» (Paolo VI), l’identificazione delle «strutture di peccato» (Giovanni Paolo II).
Le stesse immagini del sommovimento finanziario che ha mandato in frantumi, negli ultimi mesi, un equilibrio planetario che si riteneva stabilizzato, si muovono sullo sfondo del documento, che pure svolge il tema dello «sviluppo umano integrale nella carità e nella verità» e più precisamente della «carità nella verità».
È con l’intreccio di questi due fili che viene tessuta interamente la trama dell’enciclica, con una omogeneità di tensione che la percorre dall’inizio alla conclusione.
Ed è in questo elemento costitutivo che sta la differenza specifica con le precedenti espressioni del magistero sociale della chiesa. Anziché partire dall’analisi del contesto storico, che non è ignorato ma sembra dato per acquisito, ci si immette subito in un circuito di elaborazione che non rifugge dalla considerazione, anche critica, dei problemi, ma inquadra tutto nella precisa cornice teologica che è caratteristica del pensiero di papa Ratzinger. «La verità - scrive infatti - va cercata, trovata ed espressa nell’”economia” della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità».
In questo modo, precisa «non avremo solo reso un servizio alla carità, illuminata dalla verità, ma avremo anche contribuito ad accreditare la verità, mostrandone il potere di autenticazione e di persuasione nel concreto del vivere sociale». E puntualizza: «Cosa, questa, di non poco conto oggi, in un contesto sociale e culturale che relativizza la verità, diventando spesso di essa incurante e ad essa restio».
Altrettanto fuorviante sarebbe tuttavia ritenere che una simile premessa ponga sull’insieme un’ipoteca di carattere sedativo. L’accento sulla verità, fino alla sentenza per cui «senza Dio l’uomo non sa dove andare, e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia», non impaccia lo svolgersi della diagnosi sui mali del mondo e anzi la rende, per molti aspetti, più critica ed esigente. Domina in ogni ambito - l’economico, il sociale, il politico, il lavoro, lo Stato, la sussidiarietà, l’ambiente, la bioetica solo per citare qualche capitolo - una preoccupazione eminentemente etica, come discernimento di ciò che giova e ciò che nuoce all’uomo.
Ma anche l’etica abbisogna di una qualificazione e questa non può venire se non dalla frequentazione della verità che rende autentica la carità. Il discorso è rivolto alle coscienze più che ai poteri, anche se questi non sono lasciati in pace perché assidua e spesso puntuale è la segnalazione delle inadempienze (verso i poveri del mondo) e delle disfunzioni (del mercato egoistico). Uomini nuovi, illuminati dalla verità, saranno tuttavia capaci di rendere migliore la convivenza umana con la coerenza della loro testimonianza.
Naturalmente la sintesi non rende giustizia ad un argomentare complesso, che meriterà approfondimenti non frettolosi anche per gli aspetti in cui si inoltra nel difficile disegno di modalità di vita economica e imprenditoriale libere (o liberate?) dall’assillo dell’aggressività competitiva. In che misura, ad esempio, una discreta rivalutazione del ruolo dello Stato corregge certe frequentazioni decisamente «anti» manifestatesi, anche in campo cattolico, sulla scia di elaborazioni americane? Ed in qual modo una configurazione così compatta dell’etica cattolica si presta al pur necessario confronto in una società globale e pluralistica, partendo - per citare Barak Obama - «dal pregiudizio che anche l’altro è in buona fede»?
Alcune delle risposte sono già contenute nel magistero della chiesa. Se, come ha recentemente ricordato il cardinale Cottier citando la Dichiarazione sulla libertà religiosa, è insito nella natura umana il dovere di ogni persona di ricercare la verità, allora «quando rispetto l’altro io rispetto in lui questa capacità di verità». Benedetto XVI ha modulato l’impianto della sua lettera sulla «Populorum Progressio» di Paolo VI, continuamente richiamata. Ma il testo paolino si rifà esplicitamente alla «Pacem in terris» di Giovanni XXIII nella quale è scritto che, prima ancora dell’intervento della Grazia, dalla stessa natura dell’uomo scaturiscono simultaneamente i diritti universali e inviolabili della persona; e che esiste dunque una piattaforma umana di valori che rappresenta il terreno comune di una ricerca per tutti gli uomini di buona volontà.
Ai quali del resto è dedicata anche la «Caritas in veritate»; che dunque, se si vuole, può aprire un fecondo dibattito nell’intera società.

© Copyright Il Mattino, 8 luglio 2009

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