lunedì 6 luglio 2009

Il santo Curato d’Ars, così lontano, così vicino (Gianni Valente)


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Giovanni Maria Vianney a centocinquant’anni dalla morte

Così lontano, così vicino

Il santo Curato d’Ars, il prete vissuto tra la Rivoluzione e la Restaurazione, confessava, celebrava messa, insegnava catechismo, soccorreva i poveri. Non sapeva inventarsi nient’altro. Per questo tutti correvano da lui. Perché non faceva velo al lavoro della grazia

di Gianni Valente

Ad Ars il tempo scorre ancora tranquillo come l’acqua del Formans, il ruscello che attraversa il comune. Le poche case raggrumate sulla curva che gira intorno alla chiesa sono ancora incastonate tra campi gonfi delle piogge d’inverno e boschetti di poggio dove la mattina presto rumoreggiano i merli.
La vecchia canonica conservata come un museo, la suora che passa con la carriola piena di vivande per il convento, persino il mémorial con le scene della sua vita, ricostruite intorno a trentotto statue di cera che sembrano vere. Tutto rende facile immaginare la grazia ordinaria che irrigava i giorni quando lì c’era lui, Giovanni Maria Vianney, il curato patrono di tutti i parroci del mondo.
Ad Ars il tempo scorre tranquillo, ma scorre. Sono passati centocinquant’anni da quando chiuse gli occhi sereno, letteralmente consumato dalla fatica di confessare giorno e notte i suoi amici peccatori che correvano a lui da tutta la Francia. Se uscisse dalla canonica stasera – secco come un raspo di vigna, col grosso cappello sotto il braccio, la vecchia tonaca consunta, quei capelli bianchi troppo lunghi anche per la sua epoca – magari gli capiterebbe d’incrociare il gruppetto di ragazzi presi a fare impennate con le loro lambrette fiammanti proprio davanti alla sua chiesa. Chissà cosa troverebbe da dire, oggi, anche a loro. Chissà se loro lo sanno, chi è il santo Curato d’Ars. Il prete vissuto tra Rivoluzione e Restaurazione, piccolo parroco sperduto nella sua gleba, che la Chiesa di Roma è tornata a mostrare di nuovo a tutti, facendo viaggiare fino a San Pietro il reliquiario che contiene il suo cuore e affidando al suo patrocinio l’inizio dell’anno sacerdotale, il 19 giugno. Operazione non priva di incognite. Che lo espone al rischio di cadere ostaggio di neoconformismi clericali di ritorno. O a quello opposto di essere archiviato come testimonial di nostalgie passatiste. Ma offre anche la chance di seguirlo nei suoi giorni, per le vie di Ars, e scoprire così il segreto della sua paradossale prossimità.

Un altro mondo

I registri parrocchiali di Dardilly, il paese natio a otto chilometri da Lione, iscrivono la sua nascita all’8 maggio 1786. Da lì al 1859, durante i 73 anni della sua vita, la Francia conosce la fine dell’Ancien régime, la Rivoluzione, la Monarchia costituzionale, la Prima Repubblica, il Direttorio, il Consolato, il Primo Impero, la Restaurazione, la Monarchia di luglio, la Seconda Repubblica, il Secondo Impero.... Jean-Marie ha sette anni nel 1793, ne avrà quindici all’avvento di Napoleone e ventinove alla sua caduta. Riceverà il suo sacerdozio un mese e mezzo dopo Waterloo.
«I grandi avvenimenti della storia», scrive Daniel Pezeril, «non proiettano mai meglio le loro ombre che sulle vite della gente piccola». Vale anche per Jean-Marie. Nell’inverno del 1793-94 l’esercito inviato dalla Convenzione di Parigi soffoca nel sangue la rivolta di Lione, insorta contro il Terrore. Anche a Dardilly la chiesa rimane chiusa, il campanile tace, ma il piccolo Vianney – raccontano i testimoni – continua a recitare le sue preghiere in casa o nel silenzio dei campi, quando porta il suo gregge a pascolare lungo lo Chemin du Pré-Cousin o a Chantemerle. Le campane ricominciano a suonare solo dopo il ’95, dopo che il vecchio parroco del villaggio ha scelto di piegarsi al vento della persecuzione, firmando tutti i giuramenti imposti dal nuovo ordine rivoluzionario che assimila i preti ai funzionari dell’amministrazione civile. I Vianney, come tutti gli altri, all’inizio continuano a seguirlo. Solo in un secondo momento i loro parenti della vicina Ecully li mettono in guardia dal frequentare le messe di un prete considerato scismatico. Jean-Marie potrà prendere la sua prima comunione solo nel 1799, al tempo della falciatura, istruito dai preti e dalle suore refrattari (che non hanno cioè giurato fedeltà alla Repubblica) che a Ecully continuavano a svolgere clandestinamente il loro apostolato. La cerimonia avviene in una camera della casa del conte Pingon d’Ecully, dopo che è stata sistemata davanti alla finestra un’ingombrante carretta di fieno per sviare i controlli degli agenti della Repubblica.
Jean-Marie cresce da cristiano e segue la sua vocazione al sacerdozio nel tempo e nel luogo segnati dalla prima persecuzione “moderna”, e dal primo tentativo ideologico di secolarizzazione forzata. Non lo sfiora l’illusione di benedire il Nuovo Ordine, scambiandolo come una tappa della storia della salvezza. Ma non si ritrova in lui, come prima movenza, nemmeno l’impulso a organizzare la resistenza controrivoluzionaria, la chiamata a mettersi di traverso sul cammino della storia.
Un’incertezza sfibrante prende il Vianney seminarista quando nel 1809 lo chiamano ad arruolarsi da coscritto nell’esercito di Napoleone, l’invasore degli Stati pontifici, che Pio VII ha scomunicato insieme a «tutti i suoi aderenti, fautori e consiglieri» e che per tutta risposta ha deportato il successore di Pietro in Francia. Il sovrano sacrilego ha dichiarato guerra anche alla cattolica Spagna. Cosa devono fare i cattolici di Francia? Non dovrebbero, per fedeltà alla Chiesa, sottrarsi al servizio militare? A chi gli prospetta la via della diserzione, Jean-Marie risponde pieno di titubanze: «Bisogna pure che obbedisca alla legge, mie buone suore», ripete alle monache di Roanne che assistono il coscritto caduto in malattia. Alla fine, come sempre, Jean-Marie lascerà fare alle circostanze, accompagnandole di suo solo con una briciola di calcolata esitazione. Arriva tardi a ritirare il foglio di via necessario per il suo trasferimento verso la Spagna, e “cede” all’invito di un compagno coscritto che lo porta al suo paese, con la promessa che lì non sarà difficile nascondersi e anche lavorare. Disertore per caso, quasi per effetto di tergiversazione, dall’esercito napoleonico, da seminarista godrà anche lui indirettamente dei vantaggi concessi al cardinale Fesch, zio di Napoleone Bonaparte, dal suo imperiale nipote, proprio in un frangente in cui lo stesso nipote come punizione verso i vescovi indocili aveva stabilito la soppressione di tutti i seminari minori, rinfocolando i sentimenti filomonarchici di buona parte del clero. Tanti anni dopo, cambiata la scena del potere, un altro Napoleone imperatore dei francesi, con decreto dell’11 agosto 1855, promuoverà l’abbé Vianney «nell’ordine imperiale della Legion d’Onore, con il grado di cavaliere». Titolo che assume un’inevitabile vena umoristica, sulle spalle spigolose e fragili del curato che aveva immediatamente venduto a vantaggio dei poveri anche la mantellina che gli avevano affibbiato quando era diventato canonique. Quando il potere, per calcoli propri, cambia rotta e atteggiamento nei confronti suoi e della Chiesa, Vianney ringrazia il Cielo. Per tutta la vita accoglierà con riconoscenza favori e donazioni di benefattori nobili e potenti, sempre destinati ad abbellire la chiesa o, a La Providence, la casa per le orfanelle. Ma non ha il problema di sacralizzare con le sue omelie l’uno o l’altro degli assetti di potere temporale che si succedono. Nel suo piccolo, ha preso atto che la speranza cristiana non viene meno per condizioni esterne, comprese quelle della persecuzione. Speranza che può fiorire anche in terra ostile, se Dio vuole.

Debilissimus

Del resto, per atteggiarsi a leader carismatico, uomo di Dio e di potere, all’ex contadino destinato a diventare patrono di tutti i parroci mancava, per così dire, le physique du rôle.
Don Balley, il prete di Ecully a cui viene affidato per la prima istruzione, si trova davanti un ventenne quasi analfabeta, sprovveduto, più idoneo a maneggiare i manici dell’aratro che a salire i gradini del sacerdozio. Che affida fin da principio soltanto alle preghiere la chance di superare il muro d’ignoranza contro il quale urtava. I corsi tenuti in latino nel seminario di Saint Irénée a Lione gli restano inaccessibili. Debilissimus, è la stroncatura che lo bolla al primo esame: «Respinto presso il suo parroco», annotano sul registro accanto al suo nome i direttori del seminario. In realtà, molti pensano che sarebbe meglio renderlo ai suoi parenti e ai lavori di campagna. Va avanti solo grazie al buon Balley, che si prende la briga «di mettere alla portata del suo allievo quella teologia che l’oscuro manuale latino del seminario rendeva inafferrabile anche a tanti altri» (René Fourrey). Anche nei primi anni da curato, a costargli fatica è lo sforzo di aggirare le lacune che ne fanno un predicatore scadente e impacciato. La preparazione delle sue povere omelie ruba ore al giorno e alla notte. Le scrive sui suoi quadernini, e poi le impara a memoria, limitandosi a impastare amalgami di frasi e citazioni tratte dai manuali di predicazione dell’epoca, senza aggiungere nulla di suo se non qualche riferimento alla situazione dei suoi parrocchiani. Più d’una volta lascia le sue prediche smozzicate a mezz’aria, assalito dai vuoti di memoria. La vena rigorista di molti suoi sermoni dei primi anni, nei quali il giovane curato veste i panni del fustigatore dei cristiani mediocri, si può in buona parte attribuire ai prontuari che usa per i suoi centoni. Anche quando la fama di santità del curato comincerà a passare di bocca in bocca per tutta la Francia, la sua ignoranza e la scarsità dei suoi mezzi rimarrà per sempre facile argomento di scherno da parte di qualche chierico invidioso del poveretto trattato come un padre della Chiesa dai suoi penitenti. Il suo confratello Jean-Louis Borjon gli scrisse una volta che un ignorante come lui, che non sapeva niente della storia della Chiesa, che pronunciava prediche copiate male dove il Concilio di Trento diventava “concilio dei trenta”, non avrebbe mai dovuto sedere in un confessionale.
Non la pensava allo stesso modo Henri-Dominique Lacordaire. Il predicatore di grido, apostolo di un cattolicesimo ultramontanista e al contempo liberale, che aveva riempito Notre-Dame de Paris con le sue conferenze quaresimali e poi aveva rifondato in Francia l’Ordine domenicano, si recò ad Ars nel 1845 per assistere a una messa cantata dove il curato predicò sullo Spirito Santo. Ne fu strabiliato. «Vorrei predicare come lui», disse. Aggiunse che a Notre-Dame aveva visto la folla immane arrampicarsi fin sui confessionali per ascoltare le sue brillanti conferenze. Mentre chi andava dal curato, dopo averlo visto e aver ascoltato le sue parole balbettate, nei confessionali si andava a inginocchiare.

Dal rigore all’amore di Dio

Quando la visita Lacordaire, Ars è già diventata un centro di pellegrinaggio che richiama le folle su scala nazionale. Nello stesso posto, il giovane Vianney era arrivato ventisette anni prima. Uno scarto di seminario mandato in un buco di paese, abitato da contadini come lui, meno di quattrocento anime che a detta del suo predecessore rendevano faticoso e frustrante ogni tentativo apostolico, «vista la stupidità e l’incapacità di questi esseri di cui la maggior parte non ha che il battesimo che li distingua dalle bestie».
Davanti a quello che trova, il giovane curato non riesce a inventarsi proprio niente. Ripete gesti e pratiche elementari, le cose che ogni prete potrebbe fare per statuto. Preghiere, sacramenti, catechismo, opere di misericordia corporali e spirituali per i poveri e gli afflitti. Visita veloce le case dei parrocchiani, senza mai accettare inviti a pranzo. Fa qualche passeggiata nei campi per un saluto e una chiacchierata coi contadini. Recita il rosario con le donne pie. E poi sta ore e ore in chiesa, a pregare davanti al tabernacolo, o si chiude in confessionale, fin dalle prime ore dopo la mezzanotte. Il segreto del “prodigio” di Ars è tutto qui. E per primi se ne accorgono i bambini. Fin dall’inizio la prima cosa di cui si prende cura personalmente è il catechismo dei piccoli, attirando presto anche i genitori che li accompagnano e che si fermano in fondo all’aula.
Così, per più di quarant’anni, nello stesso posto, facendo sempre le stesse cose, si intesse intorno a lui un ordito sempre più fitto di vita guarita. Perdonata. Dove quello che accade nelle pieghe dei giorni rende anche il suo cuore e il suo sguardo più facili all’abbraccio verso tutti. Al principio, il giovane Jean-Marie, appena arrivato, sembrava esigere anche dagli ultimi fedeli un fervore e un’ascesi pari a quelli cui tendeva personalmente. Vorrebbe con generosità fare del suo villaggio una terra di santità eroica. Ma le sue buone intenzioni diventano spesso rimproveri minacciosi, tirate ossessive contro le osterie – luoghi di perdizione – e la dilagante moda del ballo. «Formato alla più severa disciplina», ha scritto il biografo Fourrey, «non intuì subito la misura esatta della debolezza dei cristiani mediocri che costituiscono la massa dei battezzati. Strettamente sottomesso a regole morali d’un severo tuziorismo, andava sempre all’estremo». Negli anni, le cose cambieranno. Come ha scritto Catherine Lassagne, la sua collaboratrice di tutta una vita, «l’amore che aveva per Dio sembrava aumentare a misura che la sua età avanzava e che le sue forze diminuivano. Quasi alla fine della vita, le sue istruzioni e i suoi catechismi ruotavano quasi sempre intorno all’amore di Dio. Cominciava talvolta con un altro argomento, ma sempre ritornava poi sull’amore, soprattutto la bontà e la carità del Sacro Cuore di Gesù, la sua bontà per gli uomini». Passando il tempo, il fustigatore degli inizi s’addolcisce. Con tutti i suoi limiti, che gli sono sempre davanti in un ininterrotto martirio di mortificazione, riconosce sempre più nitidamente che la cosa più tempestiva da fare è offrire lui stesso penitenze e preghiere a vantaggio degli ingrati che non approfittano dei doni della grazia. «Mi ricordo benissimo», racconta Catherine Lassagne nelle sue testimonianze, «che dopo il giubileo, essendo rimaste alcune persone senza profittarne, le supplicava vivamente in un’istruzione in chiesa di accostarsi ai sacramenti e diceva: “Se vogliono venire, io m’impegno a fare penitenza per loro”».
Così, Ars diventa il luogo di salvezza promessa e goduta, dove corrono le miserie da tutta la Francia. Anime angosciate, cuori spenti, sventurati d’ogni sventura, ricchi e poveri, pezzenti e gran signori, colti e ignoranti, inquieti e falliti, corpi piegati dalle malattie. Lui si fa travolgere dalla massa assillante dei pellegrini che lo pressano di giorno e di notte, senza farlo respirare. Per rifocillarli, riaprono perfino le osterie.

Tra angoscia e speranza

Ce ne sarebbe da montarsi la testa, salire sul piedistallo, o, come minimo, lasciar tracimare un po’ di moderata e sacrosanta soddisfazione. Ma dalla bocca del curato, fino alla fine dei suoi giorni, non usciranno che attestazioni certe della propria inettitudine. «Io penso», ripeteva alla Lassagne, «che il buon Dio non ha trovato degli uomini più gracili di me per metterli al mio posto e per fare molto del bene. Ordinariamente lui si serve di ciò che c’è di meno per fare un grande bene, perché è lui che fa tutto». Papa Paolo VI ricordava: «Quando verso la fine della vita, fu dato al santo Curato un sacerdote che lo aiutasse, egli andava dicendo al suo coadiutore: “Oh, quando voi siete presente, qui ancora ci si fa. Ma quando io sono solo, io non valgo nulla! Io sono come gli zeri, che non hanno valore, se non a fianco di altre cifre!”».
Il Curato non recita la parte dell’umile. Per lui, «le tentazioni più temibili, che portano alla perdizione molte più anime di quanto non pensiamo, sono quei piccoli pensieri d’amor proprio, quei pensieri di stima per sé stessi, quei piccoli applausi per tutto quello che facciamo, per quello che si dice di noi».
Lui, gracile e umile lo è davvero, anche per costituzione. E lo spettacolo costante della propria miseria sarà per buona parte della vita motivo di angoscia. «Se mi osservo, non trovo in me che i miei poveri peccati. Ancora il buon Dio permette che non li veda tutti e che non mi conosca completamente. Questa vista mi farebbe cadere nella disperazione». Lo tormenta soprattutto l’idea che qualcuno possa cadere nella perdizione eterna per colpa sua e delle sue indegnità di sacerdote. Perché magari le sue prediche d’ignorante non riuscivano a scalfire i cuori del popolo travolto dal proprio istintivo materialismo. E quando a imprigionarlo nel confessionale cominciano ad arrivare anche i forestieri, la vergogna lo assale e la mortificazione diventa ancora più pressante. La sua tentazione non è quella di salire sul piedistallo, ma quella contraria di fuggire l’angoscia insopportabile sottraendosi alla fama e alla folla che lo ammira come un santo. Non voleva rimanere più, «credendosi troppo poco istruito per guidare gli altri e temendo di naufragare con coloro che doveva guidare», ricorda Catherine Lassagne. I suoi umoristici tentativi di fuga da Ars verranno sempre sabotati da parrocchiani e collaboratori. Anche i pellegrini lo bloccano all’uscita della canonica: «Signor curato, se noi vi abbiamo dato qualche dispiacere, ditelo: faremo tutto quello che vorrete, per farvi piacere».

Il modo migliore di amare Dio

Non sono le miserie dei penitenti ad angustiare senza fine il curato. Scrive all’abbé Camelet, superiore dei missionari di Pont-d’Ain: «Non desidero che andarmi a nascondere in un angolo e piangere sulla mia povera vita, per cercare il perdono di Dio, per la mia ignoranza, la mia ipocrisia e la mia ingordigia… Pregate che io non sia dannato!». Al suo vescovo, che gli chiedeva se avesse mai avuto qualche pensiero d’orgoglio, risponde senza indugi: «Io ho più pena a difendermi dalla tentazione della disperazione che da quella dell’orgoglio».
Una speranza come quella del curato, che vive miracolosamente sul bilico della disperazione, risulta subito connaturale al cuore di chi vive oggi. L’esile prete di Ars non è il granitico padrone delle sue certezze eterne. Basta guardarlo, e si capisce che non si reggerebbe in piedi da solo. Che la fede, la speranza e la carità che traspaiono in lui non sono l’esito di una sua prestazione. Roba da anime bell’e fatte. Lui porge indegnamente i doni della grazia con la mano esitante e insicura di chi chiede l’elemosina. Così che può dire: «L’umiltà è il miglior modo di amare Dio». «È un santo povero», dice Jean-Philippe Nault, attuale rettore del santuario di Ars, «e incontrare un povero non fa paura. Come Teresina. Come Bernadette. Loro ci dicono: se tu sei povero, io lo sono più di te. Siamo poveri insieme, davanti al Signore». Uno così forse anche oggi sarebbe facile starlo a sentire, e magari sentirsi battere il cuore nel petto, quando assicura che Dio, mendicante del cuore degli uomini, non nega mai la sua grazia ai peccatori. E che la più grossa bestemmia è «mettere limiti alla misericordia di Dio», che non finisce mai. Tanto che «se anche all’inferno si potesse pregare, l’inferno non esisterebbe più».

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