domenica 5 luglio 2009

In attesa della "Caritas in veritate": cenni sul rapporto tra Chiesa, economia ed etica nel pensiero di Benedetto XVI (Radio Vaticana)


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In attesa della "Caritas in veritate": cenni sul rapporto tra Chiesa, economia ed etica nel pensiero di Benedetto XVI

Mancano due giorni alla pubblicazione dell'Enciclica "Caritas in veritate".
Il rapporto tra Chiesa, economia ed etica è stato più volte preso in esame dal Santo Padre.
Si trovano in particolare diversi riferimenti nella conferenza "Chiesa ed economia. Responsabilità per il futuro dell’economia mondiale", tenuta dall’allora cardinale Joseph Ratzinger ad un convegno dell’Università Urbaniana svoltosi il 23 novembre 1985.
Il testo dell'intervento è stato pubblicato su "Communio Usa" nel 1986 ed ora in uscita nell’edizione italiana di "Communio" nel mese di gennaio 2009. Di seguito alcuni passaggi della conferenza estrapolati da Luis Badilla:


Chiesa ed economia.

La disparità economica tra Nord e Sud dell’emisfero terrestre costituisce una minaccia sempre più grave per la conservazione stessa della famiglia umana. (...) Per trovare soluzioni veramente progressiste occorrono nuove idee economiche, le quali tuttavia senza nuovi impulsi morali sono impossibili e soprattutto appaiono essere inattuabili. Su questo punto è possibile e necessario un dialogo tra la Chiesa e l’economia. (...) Se si parte da una concezione classica dell’economia, a prima vista non si riesce a vedere che cosa abbiano a che fare tra loro Chiesa ed economia, a meno che non si consideri il fatto che anche la Chiesa è soggetto di imprese economiche ed è quindi un fattore del mercato. Nel nostro caso però la Chiesa non deve entrare in questione per questa specificità in quanto Chiesa.

Efficienza e moralità.

A questo punto ci si trova di fronte all’obiezione che proprio dopo il Concilio Vaticano II occorre avere un rispetto assoluto per l’autonomia delle competenze e quindi l’economia deve agire secondo le sue regole specifiche e non secondo considerazioni morali introdotte dall’esterno. In base alla tradizione risalente a Adam Smith, si sostiene che il mercato è incompatibile con l’etica, giacché i comportamenti volontaristicamente "morali" sono contrari alle regole del mercato e non farebbero altro che tagliar fuori dal mercato gli imprenditori "moraleggianti". Per questo l’etica economica è stata considerata per molto tempo come un "erro di legn", perché nell’economia si deve guardare solo all’efficienza e non alla moralità. La logica interna del mercato ci dispenserebbe dalla necessità di dover fare affidamento sulla moralità più o meno grande del singolo soggetto economico, in quanto il corretto gioco delle regole del mercato garantirebbe al massimo il progresso e pure l’equità della distribuzione. L’uomo non è fattore superfluo. Il grande successo che questa teoria ha goduto ha fatto trascurare per lungo tempo i suoi limiti. In una situazione mutata appaiono molto chiaramente i suoi presupposti filosofici e quindi anche i suoi problemi. Per quanto questa concezione si fondi sulla libertà del singolo soggetto economico e pertanto possa essere considerata in quanto tale liberistica, tuttavia nella sua essenza essa è deterministica. Presuppone che il libero gioco delle forze di mercato, con questi uomini e in questo modo, spinga verso una sola direzione, cioè verso l’equilibrio tra offerta e domanda, verso l’efficienza economica e il progresso. Ma in questo determinismo – nel quale l’uomo, nonostante la sua apparente libertà, in realtà opera esclusivamente secondo le costringenti regole del mercato – è insito anche un altro forse ancor più sconcertante presupposto: che le leggi naturali del mercato – se posso così esprimermi – sono essenzialmente buone e conducono necessariamente al bene, senza dipendere dalla moralità della singola persona. I due presupposti non sono completamente errati, come è dimostrato dai successi dell’economia di mercato, ma neppure applicabili senza limiti, né assolutamente giusti, come appare evidente dai problemi dell’economia mondiale attuale. Senza entrare specificamente nel problema – cosa del resto che non mi compete – vorrei ricordare solamente una frase di Peter Koslowski, perché indica il punto che ci interessa: "L’economia non è retta solo dalle leggi economiche, ma è guidata dagli uomini".

Un’ingiustizia strutturale.

Se finora ho tentato di far riferimento al contrasto che viene a crearsi tra un modello economico assolutamente liberale e una problematica morale, affrontando così un primo nucleo di questioni, che certamente giocherà un ruolo in questo simposio, ora conviene che io faccia riferimento anche al contrasto opposto. Il problema riguardante il mercato e la morale oggi non è più un problema soltanto teorico. Poiché le disparità che esistono all’interno di ciascuna grande area economica mettono in pericolo il gioco del mercato, a partire dagli anni ’50 si è cercato di riequilibrare la bilancia economica con progetti di sviluppo. Ma oggi dobbiamo riconoscere che il tentativo, nella forma finora seguita, è fallito e che le differenze sono addirittura ulteriormente cresciute. La conseguenza è che vasti settori nel terzo mondo, i quali all’inizio avevano guardato con grandi speranze agli aiuti per lo sviluppo, ora considerano l’economia un sistema di sfruttamento, un peccato e un’ingiustizia divenuti strutturali. In questa prospettiva l’economia centralizzata appare essere l’alternativa morale, alla quale ci si rivolge con una fiducia quasi religiosa e la sua forma diviene addirittura contenuto della religione. Infatti, mentre l’economia di mercato prende in considerazione le inevitabili conseguenze dell’egoismo e le limita con la concorrenza tra gli egoismi, in questa sembra dominare il pensiero di una giusta guida allo scopo di offrire gli stessi diritti per tutti e l’equa distribuzione dei beni fra tutti. Certamente le esperienze finora fatte non sono molto incoraggianti, tuttavia non basta per contrastare la speranza che ciò nonostante si possa realizzare l’idea morale. Si pensa che, se si tentasse di fondare l’intero sistema su una base morale più solida, in una società non determinata dal massimo guadagno, ma dall’autoregolamentazione e dal servizio reciproco, si dovrebbe riuscire a conciliare la morale con l’efficienza.

Il 13 giugno scorso, Benedetto XVI, rivolgendosi ai partecipanti a un convegno della ‘Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice’ ha ricordato che la libertà nel settore economico deve essere una libertà responsabile, il cui centro è etico religioso.

Alla vigilia della pubblicazione dell’enciclica sociale di Benedetto XVI – ‘Caritas in veritate’ – è legittimo chiedersi se l’esigenza riconosciuta dal Papa di ripensare in chiave etica i paradigmi economici-finanziari dominanti negli ultimi anni, sia avvertita anche al di fuori della Chiesa. Fabio Colagrande lo ha chiesto a Flavio Felice, docente di dottrine economiche e politiche alla Pontificia Università Lateranense e di Filosofia dell'impresa alla Luiss di Roma.

R. – Ormai saranno 30 anni, forse 40 anni, durante i quali il discorso tra etica ed economia è diventato un leitmotiv molto diffuso. Capire quale sia l'economia e quale l'etica è sempre molto difficile. Quella che è emersa in economia, almeno negli ultimi 200 anni, indubbiamente è l’etica utilitaristica. Tutto il processo economico, tutta l’analisi economica si è costruita intorno a questa idea: l’etica dell’utile come ultima misura del processo economico. Non che l’utile non sia una misura indispensabile, perché senza utile non avremmo la spinta all’agire economico. Ma quando l’utile diventa il parametro attraverso il quale costruire politiche pubbliche, entriamo nell’utilitarismo. Dal nostro punto di vista, che è quello della Dottrina sociale della Chiesa, invece, la visione antropologica è quella di un uomo creato ad immagine e somiglianza del Creatore: quindi è Gesù Redentore la figura di riferimento. Dunque, quando parliamo di etica parliamo di qualcosa di completamente diverso. In questa enciclica, la speranza è ben riposta in quanto è sempre accaduto, anche nelle precedenti encicliche, che il riferimento forte all’etica sia fatto a partire da una visione antropologica: così come Giovanni Paolo II ha posto in evidenza sia dalla “Redemptor hominis” fino alla sua prima enciclica sociale, la “Laborem exercens”, per arrivare alla “Centesimus annus”, il riferimento forte è stato sempre all’uomo, inteso come persona. In virtù di questa definizione antropologica, Giovanni Paolo II è riuscito a ridefinire il termine “capitale”, il termine “impresa, il termine “lavoro” in contrapposizione a quella battaglia che si stava combattendo nell’Est Europa – pensiamo a Solidarnosc – ed è riuscito a ri-definire il termine “sviluppo”, il termine “capitalismo”, “mercato” …

D. – Questo deficit etico nell’ambito economico-finanziario, di cui Benedetto XVI ha parlato più volte, secondo lei è riconosciuto davvero dai politici, dagli economisti, dagli operatori del settore come causa della crisi globale?

R. – Io credo che non vi sia una grande consapevolezza di tutto ciò. Temo che ci si stia di nuovo arrotolando intorno ad una pretesa razionalistica, quella di pensare che qualche algoritmo non abbia ben funzionato. E allora bisognerà rimettere a posto l’algoritmo, bisogna risistemare il modello … Invece qui è questione di pensare che l’economia è fatta di persone, che le persone agiscono sapendo di non sapere tutto; dunque il coefficiente di rischio è un elemento fondamentale,. Lo si può ridurre ma non lo si può annullare e qualora qualcuno pretenda di annullarlo, è soltanto perché lo sta trasferendo su qualcun altro, magari il più debole della catena. Mi sembra che si stia ragionando più su che cosa non sia andato bene nel giochetto, nel modellino che ci eravamo costruiti, piuttosto che nel cambiare il modello …

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